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Capitolo 3 – La Sfinge e il Detective
Se avete ancora a mente il mio colloquio/interrogatorio descritto nei capitoli precedenti, probabilmente avrete anche cominciato a pensare a tutte le volte che siete passati personalmente, rievocando più di una qualche situazione spiacevole.
La prima esperienza vissuta di interrogatorio che io riesca a ricordare risale alla prima elementare. Nei periodi di verifiche, la maestra usava chiamare noi bambini per cognome, per poi chiedere seccamente: “hai studiato?”. Ironia vuole che in quel caso fossi sempre sicuro sulla risposta: non solo i miei primi anni di scuola furono tra i più interessanti (tutto era nuovo per me), ma avevo un ottimo rapporto con i miei insegnanti, quindi studiavo volentieri e, di conseguenza, raramente ero impreparato. (La stessa identica domanda mi avrebbe dato grane qualche anno più tardi).
Al contrario, ricordavo il modo in cui entravo nel panico quando mia madre mi coglieva sul fatto quando ne combinavo una, e severa mi domandava, con tono più inquisitorio che interrogativo: “che cosa hai fatto?”.
La ragione per cui ero più a mio agio a rispondere ad una domanda a risposta binaria (si/no) piuttosto che ad una più creativa, in una simile situazione di stress, potrebbe sicuramente essere che nel primo caso, sapendo di aver studiato, riconoscevo la possibilità di sostenere una buona verifica, mentre nel secondo, che io dicessi una bugia o spiegassi il fatto evidente, non ero certo se ne sarei uscito scornato oppure no (dipendeva dalla gravità del misfatto). Il punto che sto cercando di fare è che una domanda binaria riduce infinitamente il numero possibile di risposte, mentre l’altra apre le porte all’infinito.
Abbiamo già considerato il modo in cui l’impostazione precedente al dialogo può avere effetti grandiosi, oppure nefasti, sulla conversazione stessa; abbiamo inoltre osservato come l’esperienza emotiva nel momento dell’apprendimento per l’individuo debba essere interessante, stimolante e soprattutto utile. Alessandro Manzoni, celeberrimo letterato italiano, esprime in maniera analoga tale concetto in una digressione sui valori dell’arte, in particolar modo della letteratura, nella famosa lettera al Marchese d’Azeglio. Nel caso filosofico e letterario trattato da Manzoni, al manierismo classico che richiamava valori ormai non più attuali per la società, l’autore proponeva tre famosi punti chiave che presto formarono il nucleo filosofico delle sue opere. I tre punti chiave dell’esperienza del lettore:
- Vero per Soggetto: i fatti narrati sono veri o verosimili.
- Interessante per Mezzo: la trama e il contesto devono coinvolgere e divertire attraverso un linguaggio comprensibile.
- Utile per Scopo: vi è un momento di apprendimento insito nel momento di svago. Manzoni concepisce originariamente questa circostanza come di elevazione morale.
In virtù di questi tre punti chiave, l’autore è ricordato come uno dei grandi della letteratura italiana, e uno dei padri della lingua italiana moderna. Sebbene il lettore medio possa trovare le sue opere terribilmente noiose, vi è una lezione importantissima sul modo in cui siamo in grado di concentrare l’attenzione e le energie su qualcosa.
Quando si tratta di conversazioni di coaching, ritengo che i medesimi punti chiave possano essere interpretati nella seguente maniera:
- Vero per Soggetto: i fatti e le esperienze dell’interlocutore, i suoi sentimenti, le sue opinioni.
- Interessante per Mezzo: la conversazione si concentra unicamente sul coachee, attraverso l’uso di tecniche che stimolino il dialogo ed il pensiero.
- Utile per Scopo: il ciclo di conversazioni ha come obiettivo la risoluzione di un problema attuale o la creazione di obiettivi che l’interlocutore è motivato a raggiungere.
Analizziamo ora questi fattori singolarmente nel contesto dell’apprendimento mediante un dialogo.
Vero per Soggetto
Il soggetto del dialogo è e resta il nostro interlocutore, l’oggetto i suoi obiettivi o problemi.
In questo frangente, non consideriamo le relazioni di mentoring (in italiano: tutoraggio). Quel tipo di rapporto induce a dispensare conoscenza precedentemente acquisita mediante la condivisione di esperienze passate. Tale conoscenza è da considerarsi “relativa” o soggettiva, poiché le nostre azioni passate sono frutto della nostra percezione situazionale in un dato contesto. Da una parte, derivano da soluzioni personali: ogni individuo può risolvere gli eventi con successo in maniera diversa. Dall’altra, le scelte non sono esclusivamente risultato della pura logica; è dimostrato che la razionalità ha un determinato ascendente nella risoluzione dei problemi, ma più le decisioni sono complesse e stressanti, più la mente emotiva gioca un ruolo determinante nella prosecuzione di un certo corso d’azione. In parole povere, il nostro curriculum emotivo dà forma al nostro carattere ed influenza la nostra scala di valori. Pertanto, mettere in pratica soluzioni empiriche soggettivate, quali quelle proposte attraverso l’azione di mentoring, potrebbe rivelarsi improduttivo.
Ponendo invece l’esperienza dell’interlocutore al centro del dialogo, possiamo innanzitutto discernere e poi analizzare i fatti e le sue opinioni, senza il rischio di un “blocco creativo” che potrebbe essere causato da una proposta d’azione da parte nostra. Così avremo non solo un’idea chiara degli eventi, ma soprattutto del modo in cui il nostro pupillo li percepisce e agisce di conseguenza. Facendoci strada all’interno di questo oceano di dati, è possibile trasformare una conversazione in un momento di crescita. La missione non è dunque insegnare all’altro il modo “migliore” di agire, quanto promuovere una dinamica di pensiero infinitamente più potente e significativa. Il potere dell’ascolto attivo è infatti correlato alla necessità di lasciar estrapolare al soggetto il miglior modo per riuscire in qualcosa. Attraverso tale esperienza ottimale e personalizzata saremo in grado di offrire un incredibile valore fino alla sua realizzazione.
Interessante per Mezzo
La conversazione è una forma di comunicazione altamente dinamica. È dunque importante tenere a mente che molti fattori giocano un ruolo all’interno di un dialogo. Spesso ci dimentichiamo che comunichiamo più con la scelta delle nostre parole, il tono della voce, le espressioni del nostro viso, che non con il concetto che pretendiamo di voler comunicare.
La conversazione di coaching è il nostro mezzo. L’obiettivo è di provocare pensieri nell’altro, spingendolo oltre la sua zona di comfort, i suoi pregiudizi e la parzialità di cui tutti noi siamo vittima quando non siamo più in grado di dominare il nostro ego. Ma una conversazione è di valore solo se importa davvero al nostro interlocutore; vale a dire se lui stesso è determinato a portare avanti le azioni discusse e pianificate durante la conversazione ed essere in grado di proseguire in modo autonomo.
Vi è chiaramente un dilemma nel definire l’impegno e l’interesse del cliente, perché egli può mostrare convinzione durante la nostra sessione e poi non essere in grado di concludere nulla. Se una serie di conversazioni si dimostra infruttuosa, allora abbiamo un problema.
Non bisogna dimenticare che il tempo speso a fare coaching non è fine a se stesso. Nessuno è disposto a spendere tempo, ed eventualmente denaro, in un’attività che promette bene all’inizio ma non porta ad alcun risultato. In tale prospettiva, il coach deve essere in grado di tenere in scacco la curiosità dell’altro mediante delle tecniche di comunicazione atte ad una progressiva applicazione delle decisioni. Questo significa anche che nel tempo, in relazione ad un argomento e proseguendo in un percorso sempre più specifico, il nostro pupillo dovrà spendere più tempo nella risoluzione attiva dei propositi iniziali che nel chiacchierare su di essi, e la durata delle conversazioni progressivamente diminuire – o la frequenza dilazionarsi, in base a quanto necessario. Ció che all’inizio è un momento di scoperta deve diventare un momento di trasformazione e continuo miglioramento in atto. Questa premessa è ugualmente valida per due principali categorie:
- nel caso di performance coaching, nel quale l’obiettivo è migliorare competenze preesistenti;
- nel caso di development coaching, dove si attende una rivoluzione introspettiva ed un cambiamento di prospettiva nell’affrontare determinate situazioni attraverso un processo di crescita.
Tutto ció è possibile tenendo conto di numerosi fattori. Esistono diverse metodologie di coaching, tutte ugualmente efficaci a patto che il coach sia in grado di adattarle al proprio interlocutore e al contesto. Delle numerose variabili in gioco durante il dialogo, mi premuro di condividere la mia personale categorizzazione di fattori chiave, divisi tra diretti ed indiretti, che hanno un preciso ruolo in una conversazione significativa.
Fattori diretti (ad azione immediata) | Fattori indiretti (variabili, ad influenza nel lungo periodo) |
Comunicazione Verbale: parole concetti semantica Non-verbal Communication: linguaggio del corpo tono della voce umore | carattere abitudini stress mentalità pregiudizi fattori di deragliamento |
L’appendice al termine del libro comprende una serie di domande variabili in funzione dei fattori elencati.
Utile per Scopo
La misura di successo dei nostri incontri con i clienti dipende largamente dal loro obiettivo. Pertanto, la loro utilità è inerente sia alla forma, sia al contenuto della conversazione. Se ció viene a mancare, vi troverete invischiati in una piacevole, ma possibilmente inadeguata, chiacchierata.
Se l’utilità espressa da Manzoni è di tipo morale – l’arte è un mezzo di elevazione spirituale per chi la produce e per chi ne fa uso – nel nostro caso l’obiettivo, in veste di professionisti, è di tipo cognitivo. Differentemente dagli educatori, che discutono una sapienza preesistente con l’obiettivo di formare giovani menti, il nostro scopo è quello di affilare le facoltà cognitive in funzione di tali conoscenze e capacitá già acquisite, magari particolarmente elevate ma inadeguate in rapporto alla risoluzione di un dato problema o al conseguimento di un obiettivo. La consapevolezza individuale e l’ottenimento di un maggior grado di concentrazione (mindfulness) necessaria allo scopo del nostro interlocutore sono la traiettoria in cui il coaching si inserisce come strumento cognitivo ad alta efficacia.
Il nostro compito è quello di accedere e fare accedere ad un insieme di meta-competenze che possono essere riassunte nella “capacitá di perfezionare qualsiasi competenza”. Poiché i sistemi scolastici tradizionali non riescono ad educare gli studenti mediante tale processo, i professionisti in tale senso si rivelano non solo necessari, ma sempre più richiesti. Questo è vero anche per gruppi che devono lavorare sulle loro capacitá di coordinazione, comunicazione e lavoro di squadra.
Come la Sfinge (ma anche no)
Le mie esperienze negative come soggetto di tentativi approssimati di coaching mi hanno fatto comprendere da subito due cose: primo, che meno enigmatici e complessi suoniamo per l’altro, maggiore è l’efficacia delle nostre domande; e secondo, che il contesto è essenzialmente più importante delle domande stesse.
Quesiti aperti in condizioni non piacevoli possono inibire il processo cognitivo anziché stimolarlo. Spaventando l’interlocutore con un tono minaccioso o risultare ambigui a causa dell’atmosfera sbagliata mette a rischio la capacitá di pensare in maniera critica e analitica, predisponendo il nostro interlocutore ad uno stato mentale sbagliato (che a grandi linee richiama la risposta fisiologica di attacco-fuga). È quello che capita da bambini quando veniamo redarguiti dai nostri genitori con domande retoriche come “Che cosa hai fatto?!”; ma è anche ció che succede quando siamo chiamati a rispondere ad un interrogatorio (di fatto) ed il nostro superiore pretende di fare “coaching” nel contesto psicologicamente più sbagliato.
Semmai vi trovaste ad avere un lavoro che comprende la gestione di altri, fatevi un favore: evitate di ingannare voi stessi con la presunzione di usare domande aperte per soddisfare un desiderio di controllo ossessivo. Mettetevi nei panni di coloro con cui avete intenzione di comunicare: questo è importante per evitare di perdere tempo in un’attività inefficace, e di creare sia relazioni professionali disfunzionali, sia vittime insoddisfatte di uno stile autoritario di microgestione. In effetti, tale strumento è spesso accantonato, in particolare dal “vecchio stampo”, che lo percepisce come una competenza e responsabilità delle Risorse Umane. Al contrario, le trasformazioni aziendali da decenni prevedono l’assorbimento del ruolo di coach tra le responsabilità del manager in qualità di “leader” coinvolto e supportivo, al contrario di un “capo” con la spiccata attitudine al controllo. Questo tipo di intervento è benvenuto (e meno temuto) dagli impiegati. Vi possono essere casi in cui tale fascio di competenze possa rivelarsi utile anche in situazioni più estreme ove è necessaria una mediazione tra l’azienda, con la sua cultura, politica e strategie, e gli impiegati, con la loro necessità di sviluppare o mantenere la propria carriera e le relative poste in gioco. E tale necessità è in crescita nelle grandi aziende da tempo, dove si cerca di trasformare il coaching in una cultura volta al continuo miglioramento. Giocate meno al detective… e ascoltate di più.
Se invece non siete tra questi professionisti del settore, ma avete un certo interesse nelle tecniche cognitive trattate in questo libro, ritenendole di qualche utilità per migliorare nel vostro campo o per cambiare delle abitudini, meglio per voi. La bellezza di tale strumento risiede nella sua anima sperimentale; a nulla valgono tali teorie senza un esercizio regolare di tentativi, errori e comprensione.
È dimostrato che determinate domande sono più efficaci di altre nel contesto del coaching, poiché incidono sulla ricerca della soluzione più che sull’analisi profonda del problema. Sebbene non vi siano sufficienti evidenze psicometriche sulla loro efficacia, vi sono alcuni studi condotti su un genere di domande orientate alla soluzione (DOS). Esse sono uno strumento strategico per la realizzazione degli obiettivi del nostro interlocutore. Pur apparentemente non avendo influenza diretta sul suo scopo ed i suoi interessi, tali quesiti non solo conducono l’individuo verso la ricerca di soluzioni sostenibili, ma lo coinvolgono con motivazione sulla pianificazione delle azioni future, delle quali è il solo ad avere il controllo.
Nella meta-struttura della conversazione, la comunicazione tra le parti è tanto più efficace se il coach è in grado di non influenzarla per via di fattori personali o altre distrazioni. Ciononostante, sebbene il coach sia responsabile per l’avviamento di una conversazione significativa orientata a degli sviluppi costruttivi per il proprio cliente, è quest’ultimo l’unico responsabile per la loro messa in moto e sviluppo, in funzione della sua personale interpretazione del dialogo. Venendo meno le componenti narrative e consultive tipiche del mentoring, la misura della potenza di tale conversazione va trovata nel contesto creato, nell’ambiguità intrinseca alle domande e nel legame empatico tra le due parti. Tutto questo, insieme ad altre istanze, stimola l’immaginazione ed innesca il momento di crescita, e possibilmente un impulso positivo di fiducia in se stessi.
Al di là del desiderio di includere tale peculiare competenza nel proprio curriculum, bisogna anche considerare in che direzione è protesa la richiesta di coach specializzati, in virtù della complessa e dinamica trasformazione sociale che stiamo affrontando, dall’ascesa di internet alla presente virtualizzazione delle attività commerciali. Lo possiamo notare dai cambiamenti di tendenza nella società. Si consideri la capacitá di ottenere informazioni: la loro quantità spesso ne sovrasta nettamente la qualità. Inoltre, la velocità con cui il mondo si muove influisce negativamente sul livello di maturità interiore degli individui, dal momento che serve più tempo a interiorizzare i pensieri e le emozioni di quello stretto e necessario a saperle riconoscere. Ció è causa di problemi di natura empatica, disinteresse e disimpegno e mancanza di quel sentimento di autorealizzazione. Le persone si disconnettono da ció che accade loro intorno perché non sono in grado di discernere il necessario e il bello ed isolare il resto.
Consapevoli di tale possibilità, chi si accinge a intraprendere tale professione, o forse ha soltanto intenzione di esercitare tale attività nella vita, più per passione che altro, deve tener conto del dovere etico della formazione continua e non lasciare nulla al caso, documentandosi sulle nuove scoperte nel settore delle scienze della comunicazione e del comportamento che possano apportare un valore inestimabile alla pratica, oltre che immediato.
Fino a questo momento, mi sono preoccupato di illustrare una serie di valori intrinsechi della disciplina. Generalmente la loro applicazione ha maggior successo quando siamo in grado di entrare nel miglior stato mentale possibile e adottando un approccio cognitivo interamente concentrato sul momento presente, come vedremo più avanti.
Andrea Paviglianiti
Fammi sapere cosa ne pensi!
Il contenuto del capitolo è ancora oggetto di revisione. Mi piacerebbe sapere se ti è piaciuto quanto hai letto e se vi sono dei punti poco chiari. Non preoccuparti: il prodotto finale risponderà dei punti non ancora esplorati!

The Key To Think
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