Articolo originale: Coaching in the era of changes
Due anni fa scrivevo la prima versione di questo articolo a seguito di un’osservazione. Avevo notato, fra I miei colleghi, un interesse crescente nei confronti del coaching. Generalmente, tale interesse nasceva dal fatto che i corsi adibiti allo sviluppo delle cosiddette “competenze per il coaching” crescevano in popolarità.
Che cos è (e cosa non è) il coaching?
Questa è la prima volta che scrivo del coaching in madrelingua. La stessa parola è per me intraducibile in italiano senza travisarne il significato. Ciononostante, mi risulta piuttosto facile darne la definizione.
Il coaching è un processo di apprendimento trasformativo, che utilizza il dialogo strutturato quale mezzo, con lo scopo di orientare l’interlocutore alla propria soluzione di un problema e la messa in atto delle idee necessarie alla suddetta soluzione, o per la realizzazione di un determinato obiettivo.
In Italia sono note forme molto specifiche di apprendimento trasformativo, molto simili al coaching e allo stesso tempo molto diverse.
La prima è la psicoterapia, che si differenzia dal coaching in quanto, in questo caso, il dialogo fra le due parti è molto orientata all’analisi del problema piuttosto che la sua soluzione. Lo psicoterapeuta può infatti utilizzare le tecniche di coaching ai fini della terapia; tuttavia, il coach non può fare l’inverso, senza essere adeguatamente qualificato.
La seconda forma è il metodo socratico che abbiamo studiato a scuola, o di cui magari abbiamo sentito parlare. Il metodo socratico è un insieme di principi che ha come scopo una visione più oggettiva della realtà, scevra dal pregiudizio cognitivo. A seconda della formazione del coach, del sistema utilizzato e delle necessità dell’interlocutore che chiameremo coachee, si farà più o meno uso dei principi socratici.
Avrete notato che non vi sono dei margini molto definiti quando si parla di coaching. Ciò diventa più complesso se consideriamo le diverse forme di coaching.
Definendolo in base all’obiettivo, avremo:
- il performance coaching che ha come scopo il miglioramento delle prestazioni a lavoro, nello sport o in un determinato progetto;
- il development coaching che è orientato allo sviluppo di competenze attraverso una revisione sistematica del percorso di apprendimento.
Definendolo in base all’interesse, avremo un’ulteriore differenziazione:
- life coaching: il più conosciuto, ma anche il più travisato e meno regolato;
- executive coaching: svolto da professionisti per dirigenti aziendali;
- team coaching: per gruppi piuttosto che per individui;
- e via dicendo.
Il dilemma sulle competenze del coach
A questo punto, sento necessario determinare le qualità necessarie alla professione di coaching: la conoscenza ed esperienza di alcuni modelli di conversazione, l’uso sapiente di domande positive orientate alla soluzione, l’importanza del silenzio, e così via.
Queste sono comunque competenze tecniche. Ve ne sono altre, specialmente quelle relative al modo in cui ci comportiamo e siamo in grado di interloquire nel modo più naturale possibile, che fanno la differenza una conversazione pessima, una buona ed una eccezionale. Competenze, per lo più, comportamentali ed etiche:
- essere portati all’ascolto attivo;
- avere empatia, senza simpatizzare;
- riconoscere la propria incertezza;
- sapere quando testare il vero, per quanto esso sia scomodo;
- seguire, e non forzare, la trasformazione in corso.
In che modo possiamo valutare il nostro modo di pensare in funzione del coaching? O per farla semplice: come possiamo essere presenti, concentrati e perfettamente consci?
Coaching, vita, lavoro e progresso sociale
La mia prospettiva è che avere la mentalità adatta al coaching significa averne una portata alla crescita continua, benevolenza, ed un pizzico di coraggio.
E’ ciò che in inglese chiamiamo growth mindset.
Nel contesto aziendale, ci troviamo di fronte a delle difficoltà che non abbiamo provato prima, e sembra davvero dura tenere alto il morale tra i colleghi. le persone sono furiose e deluse; e non neghiamolo, tante decisioni prese dalle aziende per cui lavoriamo non solo si sono rivelate scomode, ma talvolta controproduttive.
Queste però non sono ragioni per mollare quando si tratta di noi.
Nella sua opera “Coaching for Performance”, John Whitmore (1937-2017) teorizzava che “i coaches sono ostetrici che attendono alla nascita di un nuovo ordine sociale, uno in cui la compassione per tutte le persone e la cura per la natura, nostra unica casa, costituiscono il tema centrale”. Prima di allora, soltanto Socrate (IV secolo a.C.), il filosofo greco, ha proposto una simile visione delle cose.
Ahimè, qualche migliaio di anni è passato, e non vedo ancora tale visione realizzata: nonostante corporazioni e startups, entità che influenzano ampiamente il suddetto ordine sociale, siano sempre più orientate verso uno stile dirigenziale incentrato sul coaching, tali tendenze spesso si risolvono in aria fritta.
“Potremmo non essere in grado di stabilizzare l’economia, ma possiamo trovare stabilità personale nell’instabilità economica”.
Sir John Whitmore
Non bisogna fraintendere: questo non viene soltanto dalle organizzazioni, ma da ogni loro singolo componente: le persone. Gli individui hanno difficoltà a capire che non vi è più alcuna “era della stabilità”; invece, ci troviamo in un’epoca di continui mutamenti.
Se il naturale comportamento umano si riduce ad essere abituati alle abitudini, allora l’umanità dovrebbe rielaborare tale aspetto, poiché l’unica cosa stabile, al momento, è la dinamicità dei cambiamenti. Resistere a tale situazione, e allo stesso tempo rimanere su una mentalità anelastica, è di per sé il limite all’adattamento che aleggia in molti noi. Non vi è cambiamento che possa essere realizzato efficacemente se non avvenga esso prima dentro di noi, nella testa e nel cuore. (Ciò escludendo le buone abitudini.)
Chi è in grado di fare coaching è li per aiutare: ma al di là del supporto e delle abilità che hanno da offrire, tocca a noi avere l’attitudine giusta e saper andare avanti. Dal momento che “il punto più rilevante del momento per i coaches è quanto essi devono riconoscere i problemi più ampi e cosa poter fare con ciò che sanno”, ciò che i coaches devono fare adesso, con urgenza, è guidare tale trasformazione, supportare la validazione di competenze strategiche e, allo stesso tempo, incoraggiare le persone a ricongiungersi con la realtà delle cose.
Non hai bisogno di essere un coach certificato per far questo. Tutto comincia dall’essenziale: e dunque, come persone, cerchiamo semplicemente di essere disponibili all’ascolto e capire, perché’ il ruolo del coach è, alla fin fine, quello di sgombrare il percorso da pensieri non ancora organizzati. Quando stai cercando un cambiamento tu stesso, mettilo in chiaro e focalizzati sulla tua visione, altrimenti sfocata. Il coaching (così come il self-coaching) funziona come un muscolo: necessita tempo e pratica, ma la dedizione assicura risultati.
Nota finale
Nel periodo in cui scrissi questo articolo, cominciavano a consolidarsi le basi per quelle che poi sono diventate le Grandi Dimissioni. La pandemia ha solo accelerato i tempi, visto il suo impatto economico (includendo quello sul nostro tempo libero, e come lo utilizziamo).
Ho pensato di riproporre questo articolo adesso, riadattandolo in italiano, perché mi sono confrontato con molte persone che ancora non sanno cosa intendo quando dico che pratico il coaching; e sono giustamente sospettosi, visto l’incredibile numero di ciarlatani in giro.
La teoria, comunque, non è compiuta, senza la pratica. Per l’intero mese di giugno offro conversazioni di coaching a titolo gratuito. Lo faccio ogni anno, perché è giusto così.
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